Su uno sfondo che ricorda la pittura di paesaggio napoletana della metà del Settecento (prossima, per esempio, ai dipinti di Jakob Philipp Hackert) e con una pennellata (seppur digitale) che richiama al Goya degli anni del Parasole (1777), Agostino Rocco costruisce la propria scena teatrale interpretando il mito di Pandora con una tecnica che, grazie al fotoritocco, risulta volutamente forzata nell’assemblage ma perfettamente integrata nelle parti che la compongono. La visione che propone l’artista, estetizzando gli oggetti Fabbri, crea un effetto straniante senza togliere immediatezza alla scena, anzi la raffinatissima rielaborazione permette di giocare sul piano simbolico mescolando gli effetti: l’uso del rosso puro, per esempio, nel citare indirettamente l’amarena, diviene il punctum dell’immagine, dettaglio importantissimo su cui si concentra l’emotività dello spettatore.

Con l’energia che contraddistingue da sempre il linguaggio informale di Lidia Puglioli, l’opera Paesaggio antropomorfo sacralizza il senso mitico del rapporto uomo-natura attraverso una materia palpabile, aspra, ma finemente elegante che diviene il veicolo di esperienze simboliche; la rappresentazione, seppur magmatica, lascia intravedere i segni antropomorfi della fusione di un paesaggio (immaginario) lasciato a pura intuizione carnale nei tratti e nell’orientamento meta-morfico dei vasi Fabbri immaginati come contenitore di vita alla stregua del corpo umano nel mistero della riproduzione e della natura nel suo farsi. L’artista offre una visione vibrante, affidando la complessità del discorso alla perfezione simbolica del colore oro, emblema del potere, della virilità e della seduzione, con un continuo e vigoroso rimando all’endiadi “uomo-natura” arricchito nella sollecitazione percettiva da un terzo elemento, miscellaneo, ma coerente nella “sostanza concettuale”: le amarene Fabbri.

Di forte impatto emotivo, l’opera di Daniela Perego coinvolge lo spettatore attraverso un uso del colore che ammalia per la potenza con cui è trattato e che diviene anche il piano di lettura metasimbolico del lavoro: l’effetto è straniante e l’impressione è fisica, una sorta di allucinazione della visione come quando si fissa il sole e poi, di conseguenza, l’esistente riduce i suoi confini sfumando. Accade però che in Senza titolo ogni elemento sia ben definito nelle proprie forme perdendo piuttosto il riferimento alla funzione: si crea in questo modo una “frizione” prossima alla sfera onirica, una sovrapposizione di segni che, invece di rimandare a se stessi, sfondano la visione in profondità come il gioco degli specchi riflessi. A incrementare l’inganno percettivo è lo stravolgimento delle proporzioni(che proprio nel “gigantismo” del vaso Fabbri ribadisce la soggettività dell’elemento rappresentato)sapientemente abbinato al contrasto cromatico dei colori primari (blu, giallo, rosso) al fine di creare un linguaggio di allusioni/illusioni in cui anche un singolo papavero può essere immaginato come un’amarena.

La matrice pittorica di Gonzalo Orquín guarda alla tradizione del realismo spagnolo dell’Otto e Novecento traducendo la quotidianità intima degli accadimenti in momenti di teatralità compassata; anche in Après l’amour-après Fabbri la delicatezza dei gesti (e dei segni)viene colta nel senso più profondo di presenza esistenziale lasciando immaginare quello che è avvenuto come se la tela fosse il “frame simbolico” di una narrazione ancora aperta allo svolgimento diegetico: “amore” e “Fabbri” hanno la stessa identità sostanziale e, giocati sull’asse retorico della metonimia, rappresentano la passione consumata, il primo come atto carnale il secondo come godimento dei sensi, senza mai toccare la carica emotiva dell’azione in sè. Tutto il racconto viene lasciato all’immaginazione dell’osservatore, sulla tela resta solo l’eutimia dell’animo mostrata ancora una volta in modo indiretto da un specchio atarassico che osserva imperturbabile la dimensione interiore degli eventi.

Il genere del ritratto viene trattato da Maugliani con sorprendente abilità tecnica rileggendo la tradizione pittorica italiana alla stregua della verosimiglianza iperrealistica di ascendenza fotografica.
Il valore aggiunto delle opere sta nella particolare declinazione poetica che indaga la psicologia interiore del soggetto scrutandone condizioni mentali e sentimentali per giungere a una “epifania-irrivelata” (o in divenire di svelamento) della complessità esistenziale. Per Fabbri l’artista compie un’operazione di sovrapposizione epidermica tra la decorazione fitomorfa del marchio e la natura umana del soggetto come se il sapore delle amarene lasciasse una traccia visibile nel corpo di chi se ne appropria, una sorta di “acariasi” innocente e contagiosa che lascia senza parole e forse, in questa prospettiva, comprensibile diviene anche il titolo dell’opera che esclama “Godetevi il mio silenzio!”

Attraverso il gigantismo oggettuale, ormai divenuto espediente tecnicolinguistico che caratterizza la poetica dell’artista, l’opera Amarcord incarna la dimensione affettiva legata al prodotto Fabbri per ciò che esso rappresenta nella storia. Facendo leva sulla memoria collettiva di chi ha vissuto in pieno gli anni cinquanta, quelli della ricostruzione post-bellica e della speranza che di lì a poco avrebbe avviato al miracolo economico, Laveri ci presenta, come un ricordo che non vuole sbiadirsi, le amarene nel pieno della maturità e il vaso Fabbri nello splendore della propria opalescenza in “opposizione congiunta” alla cartoline scolorite provenienti da altri tempi e alla locandina “Cherry Brandy Fabbri” smarrita nelle tinte e per questo testimonianza del passato. Evidente il gioco contraddittorio e surreale messo in scena dell’artista tra la dimensione nostalgica, ribadita anche dal titolo dell’opera, Amarcord(ovvero “mi ricordo”, neologismo della lingua italiana tratto della celebre pellicola di Fellini) e la riproduzione in scala maggiorata delle terrecotte policrome che, nella vitalità dei colori e nella smisurata dimensione, diventano oggetti-feticcio del nostro quotidiano conservando l’aroma del tempo passato pur proiettandosi nel presente.

L’opera di Giuseppe Guindani è una composizione lirica, dal tono solenne, teatrale nell’impostazione e avvalorata nel contenuto figurativo da un’orditura citazionistica proveniente dal mondo dell’arte e della letteratura che ne arricchiscono la dimensione noetica. Se lo squarcio di cielo ricorda la pittura settecentesca di un Tiepolo o di una Rosalba Carriera per il trattamento “simil-pastello” delle tinte, la lamina d’oro sul volto richiama alla maschera funebre di Agamennone per la fissità dell’espressione e la “stroppicciatura” della superficie, mentre il passero evoca inesorabilmente la Madonna del Guercino della Pinacoteca bolognese: il tutto a dimostrare la maestria di sintesi messa in atto dal giovane artista e relazionata a sua volta con contenuti letterari di forte carica simbolica. Sullo sfondo di un Settecento veneziano e delle sue trasfigurazioni ambigue tra essere e apparenza l’artista inserisce la visione poetica di Saffo che annuncia l’arrivo di Venere(dea dell’amore, della natura e della fecondità) per mezzo di passeri. Nell’interpretazione di Guindani la delicatezza metafisica del racconto greco assume la consistenza di un’amarena, il fulcro vitale della terra è il vaso Fabbri e la natura, intesa come forza creatrice, si rinnova à rebours rigenerandosi da frutto a fiore.

La finissima operazione concettuale compiuta da Marcello Grassi, accostando il vaso Fabbri ad antichissime ceramiche attiche sotto teca, è univoca nel messaggio che vuole mandare e non ammette altre interpretazioni: non solo l’oggetto Fabbri è sdoganato dal contesto mondano per diventare parte di una collezione museale, ma vi entra tra i classici e dunque come testimonianza storica con un valore assoluto da preservare con cura. L’opera, inoltre, tocca la sfera intelligibile nella frizione tra reale e irreale tornando a essere polisemica e lasciando aperte le possibilità immaginifiche di risposta: se, infatti, la pittura vascolare rappresenta un documento antropologico per comprendere le abitudini quotidiane della società antica, è intrigante traslare nel tempo le stessa operazione chiedendosi come verrà interpretata in un “futuro-remoto” la ceramografia del XX secolo, quale funzione verrà assegnata alla decorazione “a figure blu” e come verrà codificata la scrittura. Probabilmente si parlerà di mito Fabbri!

La pittura di Alfio Giurato ricorda il Sironi delle periferie urbane, il Sironi-poeta della solitudine, quello degli anni venti-trenta che ha cantato il dramma dell’uomo contemporaneo attraverso la pittura della civiltà industriale. Il giovane artista siciliano riprende la fredda desolazione novecentista e la cupa ambientazione incarnando il malessere in una presenza umana che, sebbene evanescente e sfuocata, si presenta con determinazione nella classicità figurativa, nella posa pensata ma non monumentale, nella riproduzione quantistica dei corpi disposti a mo’ di parata in secondo piano come a voler citare un sottofondo psicologico di sapore pirandelliano; e forse proprio nel celeberrimo Uno, nessuno e centomila si può trovare la formula interpretativa che accompagna metafisicamente il dipinto: alla frammentarietà umana, le amarene Fabbri si presentano come un punto di riferimento stabile nell’incessante divenire dell’esistenza.

Massimo Giannoni compie un’operazione audace, ironica e con un valore altamente simbolico nella dinamica semiotica del dipinto. L’artista, che solitamente ama dipingere i luoghi dell’isolamento colti nella intimità ontologica della meditazione, per Fabbri si spinge oltre alla riproduzione atmosferico-spaziale con un gesto dissacrante che egli stesso non esita a definire “irriverente”, pur attribuendo l’insolenza alla piccola giara sul bancone; il motivo è semplice: il luogo dipinto è l’antica Farmacia di Roccavaldina, diventata ora Museo Farmacia con i suoi oltre 230 vasi istoriati di produzione tardo cinquecentesca inventariati con dedizione evidentemente, nel dipinto Giara irriverente, qualcosa è sfuggito alla rigida tassonomia museale violando con guizzo caratteriale la sacralità dello spazio: è il vaso Fabbri, perfettamente riconoscibile nelle forme e nella decorazione “araldica”, che posa in primo piano risultando comunque perfettamente coerente alla definizione del luogo.

Massimo Giannoni compie un’operazione audace, ironica e con un valore altamente simbolico nella dinamica semiotica del dipinto.

L’artista, che solitamente ama dipingere i luoghi dell’isolamento colti nella intimità ontologica della meditazione, per Fabbri si spinge oltre alla riproduzione atmosferico-spaziale con un gesto dissacrante che egli stesso non esita a definire “irriverente”, pur attribuendo l’insolenza alla piccola giara sul bancone; il motivo è semplice: il luogo dipinto è l’antica Farmacia di Roccavaldina, diventata ora Museo Farmacia con i suoi oltre 230 vasi istoriati di produzione tardo cinquecentesca inventariati con dedizione… evidentemente, nel dipinto Giara irriverente, qualcosa è sfuggito alla rigida tassonomia museale violando con guizzo caratteriale la sacralità dello spazio: è il vaso Fabbri, perfettamente riconoscibile nelle forme e nella decorazione “araldica”, che posa in primo piano risultando comunque perfettamente coerente alla definizione del luogo.

L’associazione compiuta da Giovanni Gasparro tra “vizio e amarena” è perfettamente consona a descrivere la brama all’eccesso che i frutti Fabbri inevitabilmente accendono: se nella realtà quotidiana il vizio si traduce in “gola”, intesa proprio come desiderio irrefrenabile di piaceri gustativi, nella dimensione pittorica del giovane artista pugliese, il tema dell’insaziabilità diventa lo spunto per affrontare le inquietudini del mondo contemporaneo cogliendo, in modo figurativo, la manifestazione psicopatologica dell’uomo. La degradazione dell’essere umano e la sua trasformazione brutale, causata della mancanza di razionalità, portano Gasparro a operare nell’ambito di una trasfigurazione fisica prossima all’espressionismo europeo per la messa in scena del deflagrante processo degenerativo; allo stesso modo la cupidigia del corpo, originata da un bisogno naturale (e quindi intrinsecamente umana) diventa la metafora drammatica del conflitto interiore che non solo consuma, ma deforma per l’irreversibilità della tragedia: non si sceglie pertanto di essere “viziati” ma fa parte del destino esserlo, senza saper resistere alle tentazioni.

L’esibizionismo tecnico del “fotorealismo” e l’inganno che genera nell’uso dei mezzi (sarà foto o pittura?) è prerogativa poetica dell’opera di De Biasio che, estremizzando l’iconicità dell’oggetto, trasforma la realtà rappresentata dal “più vero del vero” al suo palese opposto: la finzione ha lo scopo ben preciso di eludere il noema del mezzo fotografico, “smantellandone” il senso e aprendo l’opera a differenti interpretazioni. Con Tricolore, l’ascendenza morandiana della composizione e la sua “meta-fisica”, intesa proprio come il richiamo ad una realtà a cui ancorare l’esperienza al di là dell’apparenza fenomenica delle cose, si intreccia alla Pop Art nella scelta oggettuale e nella rappresentazione pittorica letteralmente esibita e funzionale ad un’espressività provocatoria. Come nella serie No logo l’eliminazione totale di ogni riferimento al marchio non sottrae il soggetto alla sua riconoscibilità permettendo una sorta di “tracciabilità” delle forme che, come nel caso dei prodotti Fabbri, sono entrate nell’immaginario collettivo divenendo il simbolo di una solida tradizione industriale ribadita nelle origini anche dall’uso esclusivo da parte dell’artista dei colori della bandiera italiana.

Decantare le lodi di Davoli come fotografo iperrealista sarebbe riduttivo, sebbene la tecnica sia giunta a livelli di raffinatissima qualità esigendo più di un accenno, anzi, meritando una precisa analisi dell’uso del mezzo; ma trattenere l’attenzione su questo frangente del discorso significherebbe non addentrarsi nell’opera e limitarsi alla lucida (e molto accattivante) patina superficiale. La Natura morta Fabbri, memore della tradizione pittorica cinquecentesca (per l’accurata disposizione degli elementi e il taglio luministico di matrice caravaggesca) è una proposizione visiva che coinvolge il pensiero soprattutto per la sistemazione ossimorica delle amarene: appassita e in solitaria decadenza naturale sebbene appena colta, l’amarena sul tavolo come su un letto d’obitorio è contrapposta allo splendore materico delle amarene all’interno del portafrutta Fabbri; ne risulta un impianto concettuale prossimo alla Vanitas, rappresentato per tradizione dal genere della natura morta, ma la sorpresa è la nuova interpretazione allegorica dell’amarena Fabbri che diviene emblema di immortalità

Perseguendo il filone creativo del recupero di materiali di scarto, il duo artistico Tironi-Yoshida, per Fabbri, lavora con la tecnica del mosaico rielaborando sul piano figurativo una immagine grazie ai frammenti di un vaso per le amarene. L’opera Bambina cocciuta gioca sull’aspetto semantico provato dalla duplicità di senso del titolo: “cocciuto”, infatti, significa “ostinato nelle proprie opinioni”, ma riprende allo stesso tempo la materia di cui è composto il lavoro, ovvero i cocci; con la tecnica del calembour, adattata in modo originale al contesto, si concretizza lo slittamento di senso che eleva l’opera al di là di una semplice omofonia con effetto umoristico aprendo l’esegesi ad una più spinta interpretazione sul piano della frammentazione esistenziale: chi non vuole modificare il proprio comportamento rischia, a fronte della propria irragionevolezza, la distruzione della propria individualità, chi invece si presenta al mondo con la dote positiva della saggezza, intrinseca nella ciliegia perfettamente integra, sopravvive alla distruzione.

Ancora una… titolo più che mai esplicativo dell’“atteggiamento patologico” dell’essere umano di fronte al piccolo frutto rosso dell’amarena…ed effettivamente è difficile resistere al richiamo incondizionato dell’assaggio successivo e di quello dopo ancora: quando si inizia è faticoso smettere e Cornini ha saputo ben rappresentare nella sua terracotta la verità assoluta del proverbio “una tira l’altra”; ma ancor più Cornini ha colto, in un momento quotidiano di felice abbandono in poltrona, l’intimità dell’individuo e le sue correlazioni con il tessuto sentimentale; ne risulta un’indagine psicologica e una fotografia introspettiva del carattere esistenziale dell’uomo.

Con un accostamento sacrale, dal sapore intrigante e ricco di intensità emotiva Roberta Coni paragona il vaso Fabbri al vaso di Pandora alludendo al mito in chiave simbolica e reinterpretandolo in virtù della voluttà che il frutto dell’amarena Fabbri incarna. 

Se Pandora è spinta dalla curiosità ad aprire il vaso donatole da Zeus, nescente delle conseguenze nefaste che avrebbe procurato il suo gesto, Roberta Coni si concentra proprio sull’attimo successivo all’apertura focalizzando il momento come massima espressione di consapevolezza e quindi come genesi della soluzione salvifica contro i mali “scoperchiati” che si sarebbero abbattuti sull’umanità. Con una reminiscenza citazionista alla scuola di Fontainebleau (Anonimo, Gabrielle d’Estrèes con una delle sue sorelle 1595), la “Pandora Fabbri” rappresenta il riscatto: parafrasando Dostoevskij, ora è “la femminilità che salverà il mondo”; la speranza, risorsa ultima della disobbedienza, è donna e amarena. È dolce e sensuale ed esercita un’attrazione compulsiva.

La poetica di Girolamo Ciulla fa riferimento ad un linguaggio antico che affonda le radici nella Magna Grecia: da qui il senso eterno e mitologico delle sue opere che divengono delle possenti e silenziose presenze, non tanto da scrutare bensì da venerare come fossero vere e proprie stele votive. La sensazione provocata dal lavoro Senza titolo è la stessa, ma a diventare reperto dal sapore archeologico è il famoso vaso per le amarene Fabbri interpretato con sintesi formale e senza ostentazione nei dettagli tranne che per un unico particolare: il nome dell’azienda che, incastonato a mosaico nel travertino, diviene l’emblema di un raccordo a cui ancorare la memoria immersa totalmente in una sospensione di indeterminatezza provocata dalla materia in grado, secondo l’autore, di “conferire stabilità alla forma senza attenuare quell’impressione di sfaldamento che deve avere una figura della memoria”. Con maestria tecnica, la severità arcaica delle forme e il guizzo coloristico del brand divengono espressione dei valori incarnati da Fabbri che da sempre coniuga tradizione e innovazione.

L’installazione di Gianluca Chiodi gioca sulla partecipazione dello spettatore che deve approcciare il lavoro, per esserne totalmente sedotto, avvicinandosi al vaso Fabbri come un “voyeur” che sbircia dal buco della serratura. Ed effettivamente la provocazione dell’artista sta proprio nell’aver colto il particolare nesso tra i piaceri della vita rimarcando gli atteggiamenti che provocano gli amplessi e che costituiscono una forma gestual-linguistica universale, compresa da ogni essere. Sul filo della condivisione globale delle emozioni, l’artista inserisce, come una postilla esegetica, la pratica del ricordo dato che l’operazione di osservazione svela inaspettatamente un’immagine di altri tempi: le “snocciolatrici di amarene” dei primi Novecento tornano dal passato costituendo un passo di arte contemporanea, esattamente come Fabbri che, seppur azienda moderna e all’avanguardia, espone con orgoglio le proprie radici ben piantate nella storia.

Andrés David Carrara propone sedici quadrati che riproducono con insistenza il famoso barattolo delle amarene Fabbri: l’esaltazione quantistica dell’oggetto e il particolare punto di vista conducono verso una prospettiva estraniante che fa perdere la dimensione realistica a favore di un contenuto onirico. Le suggestioni dettate dalla “ripetizione differente” e dal virtuoso scorcio aprono la lettura a una via che altera l’osservazione diretta dell’oggetto quotidiano a favore di una nuova presenza reinterpretata per i valori simbolici che incarna: per questo il barattolo Fabbri diventa Come un astro emblema stellare di navigazione ultraterrena ma anche, più semplicemente riprendendo il senso figurato della parola, eccellenza produttiva, “star” della tradizione culinaria italiana.

Apparentemente divertente, come lo stesso titolo intende sottolineare, il lavoro di Giulia Caira è, in realtà, una rappresentazione dal contenuto sarcastico che rilegge l’Odissea in chiave contemporanea intonando il passo mitologico alla stregua delle vicende attuali. Lo scalpore dell’opera, prossima nell’ambientazione alla “sovversiva” Colazione sull’erba di Manet, non sta tanto nella ipostasi tra uomo e animale a opera di Circe, ma è da ravvedere nella distorsione narrativa data dall’artista che trasforma il dramma della metamorfosi in un momento dedito al piacere, senza affanni e da godere con la totalità dei sensi.
Se Ulisse era provvisto dell’erba “moly” per rimanere indenne dall’incantesimo della maga, gli uomini della sua ciurma preferiscono subire il fascino della magia, piuttosto che sopperire all’esperienza, seppur irreversibile, di partecipare al banchetto di Circe e di ripetere “l’agape bianca” anche da maiali. Con assoluta complicità nei confronti dei valori rappresentati da Fabbri, Giulia Caira attribuisce alle amarene il potere magico e irrefragabile a cui è impossibile resistere anche a scapito della propria individualità creando, in questo modo, una sorta di documento teleologico che afferma che il fine ultimo degli esseri è il piacere.

Nell’opera ABW327 si legge la discendenza fotografica di Andrea Boyer (prima di approdare alla pittura alla fine degli anni ottanta); la puntualizzazione professionale è utile per comprendere il sentire poetico dell’artista prossimo, anche nei disegni, allo still-life genere tradizionalmente in grado di cogliere gli attributi più importanti dell’oggetto rappresentato.
Il tradizionale vaso di ceramica dagli inconfondibili decori diventa soggetto del documento analizzato dall’artista in forma parziale di dettaglio che, per la sua natura di sineddoche, fa della parte il corrispettivo mentale di un tutto molto più ampio e complesso di una presenza oggettuale rappresentata nella totalità: ad avvalorare la progressione quasi metafisica del pensiero e dell’immaginazione è la tecnica del disegno a matita giocata esclusivamente sulla gamma cromatica del bianco e nero e con una marcata impostazione di luci e ombre che decentrano la dimensione icastica a favore di una traslazione perturbante.

Con la delicatezza pittorica che contraddistingue il lavoro di Giuseppe Bombaci, l’opera Scempio. Donna che guarda un vaso allude, solo nel titolo, al mito di Pandora ma senza lasciare nella tela nessun riferimento alle conseguenze del gesto nefasto raccontato dalla mitologia greca. Tutt’altro: nell’opera prevale un senso di eutimia, che elude il dramma e che si combina perfettamente al gioco delle  apparizioni, padroneggiato con maestranza grazie anche all’uso preponderante della scala di grigi che lo stesso autore ammette utilizzare per il suo effetto normalizzante e per l’intrinseca capacità di dare equilibrio. Il sistema linguistico immediato perché l’immagine è costruita con elementi già esistenti e riconoscibili, come se l’artista cercasse nella realtà le fonti da cui trarre il pretesto per fare pittura: nel caso di Scempio, il volto, il vaso e la decorazione Fabbri hanno un carattere fenomenico che si inserisce con grazia nella trama astratta dello sfondo.

Maestro indiscusso dell’iperrealismo Luigi Benedicenti, nell’interpretare le amarene Fabbri gioca con un tema a lui tanto caro, quello delle dolcezze culinarie, che interpreta poeticamente come abitudine della classe borghese italiana. In Sara, le amarene e la bandana del Pirata Pacioccone la rappresentazione riprende la tradizione del “quadro nel quadro” confondendo l’immagine naturalistica e la realtà in un rapporto che ribadisce la sua natura circuitazionale anche grazie all’uso del colore. La messa in scena propone dunque un effetto straniante, non tanto attraverso la sovrapposizione dei piani dell’immagine ma per mezzo dello sfasamento delle sfere percettive che sono “edulcorate” a priori proprio dall’oggetto Fabbri, emblema di bontà e di “bellezza genuina”. A liberare l’abbandono noetico della visione dell’artista è il titolo stesso dell’opera che sottolinea, con un riferimento citazionistico, il significato della mise en scène: la bandana indossata da Sara è quella del pirata Pacioccone, protagonista di una serie animata andata in onda in Italia dal 1965 al 1976 per pubblicizzare i prodotti Fabbri e le amarene, con la loro duplice presenza icastica, divengono l’apice sensoriale, protagoniste che impattano i sensi e, per questo, simboli indiscussi di piacere.

Il lavoro di Nicola Bolla coincide con un gesto di sapore duchampiano in cui l’oggetto regna sovrano caricandosi di valori altri rispetto al semplice contenuto formale: la tecnica di ricoprire gli elementi della rappresentazione scultorea con Swarovski, oltre che linguaggio distintivo della sua poetica, altro non è, secondo l’autore, che la volontà di “estremizzare l’idea dell’effimero e in qualche modo dell’inutilità che a volte risiede nell’opera dell’artista”. Con Senza titolo a essere  radicalizzato nella sua forma esteriore è il vaso Fabbri che diviene l’emblema raffinato di contenuto prezioso.

Chiara Albertoni rappresenta il processo di trasformazione dell’amarena da frutto a delizia cogliendo nel flusso, seppur immobilizzato della tela, il divenire attraverso una simbologia alchemica.

Ed è proprio nell’etimologia di “alchimia” che si può ravvedere la finezza dell’artista nell’interpretare la filosofia Fabbri concepita nella più pura essenza originaria, sia essa  “pietra filosofale” come vorrebbe la tradizione linguistica araba o, invece, “succo per fare oro” come riferisce la terminologia cinese: in entrambe le soluzioni permane il sapore mistico di un’aspirazione da conquistare con le sapienti doti che solo maestranze elette possono esercitare e metaforicamente incarnate da Fabbri. Nigredo (dissoluzione della materia), albedo (sublimazione della materia) e rubedo (ricomposizione della materia), i tre stadi principali della trasformazione alchemica, sono emblematizzati dal colore offrendo, nella potenza evocativa del rosso amarena, il sapore di una magia che avviene dal 1905.

Paul Beel è un maestro del ritratto contemporaneo, non tanto perché i suoi soggetti sono volti della vita quotidiana bensì per la sua capacità di innovare un genere che affondale radici nella storia dell’arte e che, dunque, risulta strettamente codificato e di difficile  riproposizione. L’artista, fedele alla sua poetica, in D.I.Y. Amarena Bang gioca la visione sulla sensazione ambigua(avvalorata anche dal titolo del lavoro) e provocata da un cortocircuito noetico che si crea tra la drammaticità della scena e la dolcezza esplosiva delle amare neanch’esse presentate come un ritratto, non più, dunque, oggetto della narrazione ma soggetto vivo, vitale e complice di quello che appare un vero e proprio momento di climax estatico senza spazio e senza tempo: una parentesi onirica affidata ai sensi. La sacralità è nell’ascesa dello sguardo che incontra gocce di pioggia (o di piacere?) come se lo squarcio parietale altro non fosse che un viaggio ideale e immaginario provocato dall’esplosione metaforica della bontà Fabbri: emerge una santità laica legata ai principi materiali che toccano l’essere, ma per questo non profana, anzi per questo esattamente “estetica” che, infondo, altro non significa che percepita con i sensi.

Con una certa dose di ironia che contraddistingue il lavoro del duo artistico, l’opera gioca sul binomio “contenuto-contenitore”. Lasciando all’immaginazione la potenza evocativa del sapore Fabbri.

A raccontare la storia, la riproduzione in marmo dello scatolone per il trasporto delle amarene “simbolo ecumenico” di una evoluzione aziendale che ha saputo rinnovarsi penetrando ogni dove e raggiungendo la superficie globale. La metamorfosi non è formale ma materiale: la povertà del packaging ristabilisce il cortocircuito concettuale nella presenza effettuale della sapiente lavorazione marmorea che Peducci/Savini trasformano in uno scrigno leggermente divelto, particolare non trascurabile, perchè, se come disse Aby Warbug “Dio sta nel dettaglio”, il gesto suggerito dalla forma apre ’immaginario che lambisce i sensi.