Tre degli oltre mille frame dal software interattivo autogenerante.

Mario Taddei crea per Fabbri un’opera multimediale, che ha interamente programmato con un software interattivo e autogenerante.
Studioso di Leonardo da Vinci e appassionato dei suoi scritti, ha firmato alcune scoperte di risonanza mondiale riguardanti le Macchine di Leonardo, ma non trascura l’arte digitale: collabora alla didattica del Politecnico di Milano nei corsi di Modellazione 3D, Cad/Cam e Comunicazione Multimediale e dedica gran parte della sua attività allo sviluppo di prodotti interattivi per la divulgazione della scienza. Per Fabbri immagina vasi virtuali che, come un virus o un Alien, non si distruggono, ma si trasformano. La sua opera è forse la metafora della forza del marchio bolognese che ha superato brillantemente i centro anni di vita e ancora non li dimostra.

Per la pittrice lombarda il rapporto immagine e parola è sempre stato determinante e dunque quest’opera per Fabbri non si comprende appieno senza il suo titolo.

Ma che cosa centra Tim Burton con l’Amarena Fabbri? Il cinquantenne regista, attore, animatore statunitense, celebre per i suoi film visionari, sempre di argomento fiabesco e dall’ambientazione neogotica, è tra i più amati dall’artista che, come lui, si sente vicina ai personaggi che dipinge, poco integrati e in conflitto con la società: anche Roberta Savelli tende a interiorizzare tutto, solitaria e talora scollegata dal resto del mondo. Eppure la sua partenza è sempre la realtà; i suoi quadri sono ritratti a olio su garza e danno forma al respiro impalpabile; i suoi dipinti vibravano d’aria sulla superficie bianca e leggera. Da un anno in qua Roberta Savelli è tornata al disegno su carta, quella dei fondali di scenografia dove si è formata, oppure quella delle pagine di un libro illustrato, dove è sempre tentata di approdare. Le sue visioni preferite narrano di terre di mezzo, abitate da bambini senza tempo, da fanciulle che non vogliono crescere e da vasi di dolci amarene nascosti in
un paese delle meraviglie.

In un lavoro del 2003, Concerning her life I, Luisa Raffaelli ci aveva già fatti entrare in questa immagine, ora rivisitata per Fabbri con l’aggiunta, quasi scontata, del vaso bianco e blu di amarene a centro tavola. 

Al fondo del refettorio, però, si scorge anche un giovane uomo che ci fissa dal monitor acceso, trapassando con lo sguardo, nell’ordine, il vaso Fabbri, la donna dai capelli rossi e lo spettatore fuori campo. Un intervento coerente col repertorio dell’artista torinese, che da anni ripropone il corpo di una giovane donna metropolitana come filo conduttore della sua ricerca iperrealista e dagli effettI stranianti. Rosse o bionde, le donne di Luisa Raffaelli non premono sullo spazio, non sono vincolate al tempo, né alla forza di gravità, così come accade nella realtà; sembrano piuttosto extraterresti o replicanti alla Blade Runner. Dentro o fuori dalla manipolazione digitale, rimangono esseri sconosciuti, oggetti del desiderio, espressioni di una condizione aliena, impaurita, debole nel suo status quotidiano.

Il vaso Fabbri non c’è quasi più; è soffocato da rami e da rovi, in una selva dentro alla quale è imprigionato anche un piccolo essere umano, o umanoide, in piedi sul coperchio. 

Forse stiamo assistendo a una mutazione genetica dell’uomo-amarena?
Sin dagli esordi, l’opera di Marco Prestia, giovane artista siciliano, ci ha abituato a immagini avveniristiche e cibernetiche, per denunciare il malessere sociale, le aberrazioni e le falsità del contemporaneo. Con la resina e i materiali argillosi modella figure, piccoli scherzi del destino che si cibano di mummie, ventri che aprono il volo a piccole farfalle. Il suo lavoro più recente è incentrato sul biomorfismo; sono figure antropomorfe, dai connotati quasi fiabeschi. Esseri per metà animali, per metà uomini, che si muovono in un non-mondo indefinito e geneticamente lontano, eppure, nei paesaggi, attraverso i fili d'erba o i piccoli dettagli evidenti, ci rendiamo conto di come questo luogo ci appartenga. Di come assomigli sinistramente al giardino di casa, al parco della nostra città. E allora la variabile umana di queste mutazioni si manifesta nella sua potenza, instillandoci il dubbio latente che qualcosa di simile esista, davvero.

Tra i protagonisti della Nuova Scuola romana, Gioacchino Pontrelli
sa rendere contemporaneo ogni suo lavoro, chiaro e comprensibile a tutti.
Allo stesso tempo, però, i suoi quadri che ritraggono arredi di design, sfarzose abitazioni o ambienti minimalisti, rigorosamente senza alcuna presenza umana, dicono qualcosa di più soltanto a chi li sa guardare veramente. L’artista ha messo a punto una poetica molto singolare per esprimere la sua ricerca interiore; conosciuto come “quello degli interni”, è consapevole che le sue opere parlino a pochi, eppure ciò non lo disturba. Ogni sua opera è un racconto dell’anima, ambientato in una scenografia precisa: Amarené, per esempio, vive in una casa anni cinquanta, come si deduce da alcuni indizi:
il bel vaso Fabbri rosso amarena, la celebre sedia di Arne Jacobsen e un tappeto informale e colorato. Gioacchino Pontrelli, però, non vuol fornire risposte, né si propone precisi obiettivi. Lo spettatore, di conseguenza, può perdersi nelle sue tele o semplicemente osservarne la bellezza formale.

Una piccola “zombie” con mutandoni bianchi e blu, che ammiccano
al decoro del celebre vaso Fabbri, guarda lo spettatore e tuffa le sue
braccia corte in un impasto bianco più grande di lei; sarà zucchero glassato? Labbra sensuali, rosse e carnose, stampate come una firma nell’angolo inferiore della composizione, sono golose di godimento. Che fine hanno fatto le figure femminili di Elena Monzo, aggressive e trasgressive, sempre alle prese con la ricerca della propria individualità? La giovane artista bresciana tratteggia qui a matita, incolla lustrini, assembla decori in un linguaggio che ricorda l’immediatezza del fumetto, ma in cui si mescola anche la sguaiatezza iconografica di un certo Espressionismo. I colori
sono acidi e la figurazione è più morbida perché Elena Monzo non descrive una realtà tangibile, ma preferisce trasformare il visibile attraverso un filtro psicologico ed emotivo. Inventa un nuovo tipo di prospettiva dove le proporzioni non sono reali, i colori seguono l’umore e le forme sono volutamente sbilenche. Sparisce ogni riferimento spazio-temporale per lasciar spazio all'emozione.

Dalla street art (“essere stato un writer ti rimane per tutta la vita anche se smetti di dipingere” dichiara) al design il percorso artistico di Mido ha una costante: la passione per il disegno, per l’appunto su carta e la necessità di raccontare attraverso la fotografia ciò che incontra e ama. Soprattutto la sua terra d’origine e poi i viaggi, durante i quali scatta centinaia di fotografie che ritocca con notevole talento. Per Fabbri Mido propone una foto digitale con una scena domestica trasfigurata ad arte: a metà strada tra la lampada di Aladino e un incontro ravvicinato del terzo tipo, il vaso di amarene Fabbri diventa, per la piccola esploratrice, protagonista dello scatto, un oggetto non identificato carico di scintillanti emozioni e di dolci sorprese colorate.

Una vanitas contemporanea, realizzata nella maiolica bianca e blu del vaso di Amarene Fabbri, è l’opera dell’artista toscano che attualizza, in occasione del Premio, un suo precedente lavoro del 2007. Bizzarro e anticonformista, esperto nei calembour e nei paradossi visivi, Paolo Maione è uno scultore a tutto campo (maiolica, bronzo, terracotta), fervente sostenitore di quanto sia essenziale il rapporto con la materia che va toccata, conosciuta, lavorata. Abilissimo dal punto di vista tecnico, lo scultore attinge idee e forme da un immaginario che mescola le radici popolari e vernacolari alla più nobile storia delle arti decorative. La sua vena sarcastica si colloca nella feconda famiglia italiana di Collodi (celebre il suo ciclo di opere dedicate a Pinocchio e al suo spirito beffardo e anarcoide), Pirandello, De Filippo, Totò, campioni del riso ma soprattutto filosofi del disincanto.

Il vaso di Amarena Fabbri è grande, tondo, dolce e galleggia come una boa rassicurante. Assomiglia alla mamma in costume nero; ce lo suggerisce Giovagnoli con questa tela che ha la freschezza di una foto istantanea trovata nell’album dei ricordi, ha la forza di una visione surreale e la bontà di un lavoro pittorico fatto come una volta. Dopo vent'anni l’artista riminese conserva ancora, inalterato, il piacere della preparazione artigianale dei supporti, costruiti con abilità meticolosa. Tira con forza la juta su tele sottili e la ricopre con un generoso strato di collante per rendere uniformi le naturali asperità. Giovagnoli non fa bozzetti preparatori, perché è lo stato d'animo del momento a suggerire la tavolozza; ecco allora che gli acrilici si mescolano alle terre, alle sabbie, alle polveri naturali, dando corpo ad impasti granulosi che saranno poi soggetti a graffiature, scalfitture, colate spesse e lievi sgocciolature, all'apparenza casuali, e invece studiate, soppesate, finalizzate all'armonia generale. Il procedimento tecnico è veloce, fluido e dinamico; il colore non deve indurire troppo, le colle non possono asciugarsi del tutto, la materia deve conservare morbidezza e duttilità. Saper fare pittura è una ricetta che si ha nel sangue, proprio come i Fabbri con l’amarena.

Artista a tutto tondo (pittura, scultura, arti decorative) Eloisa Gobbo raggiunge negli ultimi anni una maturità di segno e di espressione molto importante, al punto da poter presentare opere spiazzanti e pur sempre intriganti, come questo vaso gravido di amarene Fabbri, ma in realtà portatore di luce, dunque una lampada. È fatta di nylon sinterizzato, ma alla vista sembra essere di terracotta; ecco un altro gioco dell’ambiguo e del doppio senso, un’abilità che contraddistingue il lavoro dell’artista padovana come quello di tutti gli artisti autentici: creare un’opera aperta, capace di dare più livelli interpretativi.
Per Eloisa Gobbo la decorazione è, dunque, uno strumento, ossia un alfabeto destrutturato che, all’occorrenza, può comporsi, grazie alle sue numerose varianti stilistiche, in nuovi patchwork pittorici. Ma l’artista non si accontenta di restare sulla superficie delle cose; vuole trasmettere, con la sua opera, una riflessione sociale e politica sul tema della prostituzione e sul problema esistenziale del sesso quando è scollegato dall’amore e dalle sue conseguenze. Raggiunge lo scopo guardando al patrimonio iconografico delle arti ornamentali d’oriente e d’Occidente, del graphic design e del computer graphiche facendone una personalissima sintesi formale.

I gorilla gli riescono bene. Li dipinge dal 2002, da quando realizzò la prima
serie di animali, confluiti poi nella mostra “Safari” (2008).
 
Gli animali sono per Riccardo Gavazzi un pretesto formale, la varietà dei loro corpi lo incanta e le loro forme gli permettono maggior libertà di espressione e di sperimentazione rispetto al ritratto. Negli animali Gavazzi vede la materia, vede il colore, vede la sfida di produrre qualcosa di brutto e di renderlo desiderabile; sceglie la pittura perché è un gesto primitivo, è come cucinare, è vita in sé. Nel dipingere questa scimmia gigante, che evoca l’hollywoodiano Kong, l’artista percepisce la velocità del proprio corpo e instaura una relazione carnale e umana con lo spazio tutto intorno, creando una sceneggiatura in cui la storia dell'opera diventa l'opera stessa. In questa tela per Fabbri, l’azione cinematografica, lo sfondo pop con il logo Fabbri che diventa una texture e l’idea di sostituire alla bionda Ann Darrow il vaso bianco e blu dell’amarena, formano un mix particolarmente felice.

Maestro storico che ha attraversato tutta la stagione pittorica del secondo dopoguerra, Walter Fusi approda alla sua inconfondibile cifra stilistica, che ancora lo caratterizza, all’inizio degli anni ottanta e ciò coincide con il ritorno in Toscana, cioè alle origini, nella natia Val d’Elsa, dove ancora vive e lavora. Nato a Udine da genitori toscani, si trasferisce a Firenze proprio nel periodo giovanile, segnato dall’Informale (anni quaranta-cinquanta) e qui decide di diventare artista. Passa poi all’Astrattismo geometrico e negli anni sessanta e settanta, trasferitosi a Milano, diventa protagonista del Concretismo. Nei primi anni ottanta torna a Firenze, si riconcilia con l’Informale e l’Astrattismo e produce tele con tecniche miste e colorate, stese sempre a campiture piatte. Impossibile chiedergli di inserire un corpo estraneo come il vaso di amarene nel suo rigore geometrico e infatti, nell’opera per Fabbri, entrano soltanto pezzi di vaso, sagome piatte, spicchi di colore blu, secondo un processo decostruttivista a Fusi familiare.

Tra dune di neve, dietro una baita di sassi e legno, una latta di amarena Fabbri affiora vicino ai tronchi degli alberi spogli e ai contrafforti di un fortino militare. 

Francesca Forcella, abruzzese, ha uno stile pittorico semplice e immediato.
Le sue tele, di medio e piccolo formato, raffigurano paesaggi di montagna e valli imbiancate: nei suoi quadri la neve silenziosa e ovattante sottrae alla vista porzioni di reale. I quieti fondali accolgono immagini sospese nel tempo e nello spazio, dove non vi è presenza umana, ma se ne intravedono le tracce, reperti di civiltà, come in questo quadro. L’ambientazione pensata dall’artista invita lo spettatore ad addentrarsi in uno scenario incontaminato, dove l’amarena è la miccia che accende la fantasia.

Un contenitore di latta fuori misura, un colore fuori dalla gamma che ci si aspetterebbe (né rosso amarena, né bianco e blu come il vaso): dove sta il richiamo al marchio Fabbri?
Nel motivo decorativo, fatto a mano come fosse una decalcomania, ma applicato con estremo minimalismo formale, giusto per evocare (ma non troppo) qualcosa di familiare. China Black non è un’opera tipica di Flavio Favelli. Appartiene a una nuova stagione in cui l’artista fiorentino non assembla più le piccole cose di pessimo gusto che intercettava da bambino, nelle case borghesi dei parenti.
Le sue originali installazioni, fatte di oggetti desueti e tese a ricreare la percezione del passato prossimo attraverso le cose che lo abitarono(bottiglie di vermut della nonna, carte veline colorate per le arance di Sicilia, vecchie cancellate in ferro battuto, mobili da rigattiere, vasi di ceramica Fabbri), si stanno stilizzando e semplificando. Da una dimensione intima e analitica della propria esistenza, Favelli passa a ragionare in modo politico e collettivo sul mondo dei marchi aziendali e dei nuovi mecenati della contemporaneità. Il vaso o i barattoli industriali Fabbri, citati e riletti dall’artista generano dei falsi autentici, in cui si assiste al riconoscimento del segno (l’identità dell’autore) e al suo fraintendimento.

Provocatrice, interprete dell’arte performativa più vicina al movimento di Fluxus che a quello concettuale, segnata da un’ossessiva necessità di ripetizione (sia dell’immagine sia del gesto artistico) e di auto-rappresentazione, Sabine Delafon sceglie per Fabbri un’installazione di trentadue vasi di vetro. Allineati con ordine seriale su quattro file, non contengono il celebre prodotto dolciario, bensì altrettante fotografie che ne evocano la bontà, il marchio, il colore, oppure i ricordi personali della stessa artista francese. Così decontestualizzato, l’oggetto Fabbri esce dal mondo dell’arte pasticcera per entrare di diritto in quello dell’arte visiva.

Il vaso bianco e blu dell’Amarena Fabbri diventa, nella visione del pittore romano Marco Colazzo, un cosmo a sé; lo suggerisce il piccolo Robot che ha puntato l’oggetto (sconosciuto o desiderato?); lo fanno pensare anche le dieci lune che gli girano attorno, sospese in un cielo marziano. L’artista fa, infatti, della pittura un habitat nel quale vita e sogno si intersecano, determinando l'una le conseguenze dell'altro. I suoi quadri hanno una matrice fortemente astratto-geometrica, che negli anni vira verso il Concretismo e il Surrealismo, ma senza nulla togliere alla coerenza interna del lavoro: Colazzo sceglie pupazzi o Robot per meglio riunire tutto in un’unica figura, ma non dipingere una persona vera, forse per delicatezza. Le sue comparse sono senza nome, come in questa tela, per non togliere la scena al logo Fabbri.

Forse è un sogno premonitore, oppure un incubo: ma qualcosa accade realmente nel tranquillo pomeriggio del samurai: la sua geisha sta copiando dal vero, su un antico sigillo, il vaso dell’Amarena Fabbri e per un istante il guerriero non è più il centro dell’universo; anzi, forse la donna lo sta per tradire con il celebre dolce di Bologna, seppure soltanto col pensiero.

Dal 2007 Roberto Coda Zabetta introduce nelle sue tele inconfondibili (sempre in bianco e nero e sempre definite da grandi volti deformati) le visioni di un mondo nuovo, che per l’artista biellese si chiama Est: Giappone, Tibet, Cina, Indonesia. Il suo rapporto con l’Oriente si intensifica negli ultimi due anni con mostre a Bali, Pechino, Shanghai, Jakarta, e anche questa prova artistica per Fabbri è la conferma di una svolta pittorica in una direzione più esotica e narrativa.

Più noto come ceramista e scultore, figlio d’arte (suo padre Achille era un pittore del Socialismo reale) il savonese Vincenzo Cabiati realizza le sue opere utilizzando più media e talvolta contemporaneamente: fotografia, video, ceramica, bronzo, cera, installazioni.

Anche per Fabbri dà vita a una visione pittorica frutto di vari passaggi concettuali: dalla fotografia alla tela. Il principio che li sottende trae ispirazione dall’idea di trasposizione di scenari reali, ripresentati allo spettatore come visioni originali. In Oasi un uomo che l’artista conosce bene (il suo alter ego?) è ritratto in giacca e camicia e in posa distinta, quasi si fosse appisolato in un accogliente angolino della casa, tra vecchi quadri, in sonnecchiante attesa. Cabiati manipola la visione di cui non è importante conoscere l’origine, la interiorizza prima di riprodurla e poi la rappresenta attraverso un filtro di ricordi, emozioni e suggestioni diverse. L'artista allude ma non spiega: non indica, suggerisce.
Anche il mondo Fabbri diventa un sottile motivo decorativo, leggibile in trasparenza nel plexiglas.

Come il sapore di una “Madeleine” fa riaffiorare alla mente i ricordi dell’infanzia di Marcel Proust, nel celebre romanzo Alla ricerca del tempo perduto, così il vaso Fabbri fa riemergere nella visione artistica di Adriana Albertini i momenti più dolci di un passato che non l’abbandona, anche se riaffiora a tratti.

È da questa idea che nasce la sua installazione luminosa "Dolce Esplosione", realizzata in ceramica, in un mosaico di frammenti di vita che non sbiadiscono con gli anni. Ceramista e designer, l’artista bresciana dipinge a mano i cocci del celebre vaso e li cuoce al forno con le amarene (in tutto più di duecento), poi li appende a fili d’acciaio perché in presenza d’aria si sfiorino, producendo un tintinnio musicale.
L’opera è dunque un “trionfo” leggiadro, un’esplosione luminosa di sensazioni inebrianti che trasportano a ritroso, accompagnando il viaggio nel passato con un suono incantatore, quasi un inno alla dolcezza e all’amore rosso amarena.